di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
[...] vabbeh dai, non le faccio più 'ste cose. ora sono un bravo ragazzo.
e da quando?
qualche annetto...
quanto?
non saprei... da un pò...
cioè?
saranno 3, 4 anni...
BASTARDO! 3, 4 anni fa stavi con me!
il vuoto.
inesorabile eco, rintocco perpetuo.
nulla per cui, niente per il quale.
non ci provo neppure, non mi va, non ci riesco.
qualsiasi cosa mi passi per la mente è mia, mia e soltanto mia.
che io pensi a te, a lei, all’altra, a nessuno. sono solo e soltanto affari miei e di nessun altro al mondo. non è la testa che non va, magari non c’è proprio o solo che non sta qua.
sta altrove, sta con me, sta in macchina, sta abbandonata fra le pagine di chissà quale libro, sta fra le tette della fortuna; ma non qui, non alla mercè tua o di chiunque altro come te. niente avvoltoi, niente spugne, niente e nessuno; io, io soltanto per me e per nessun altro. e non mi viene di scriverlo solo perché l’ho pensato; o magari è troppo importante per venirlo a raccontare giusto qui; o forse è personale, è privato, è riservato, è mio.
e non perché sia più incasinato del solito, non perché sia andato oltre, non per chissà quale maturità: solo e soltanto perché non è qui che vogliono stare i miei pensieri. liberi, e se incatenati, incatenati a qualsiasi altra cosa che non sia qui. magari domani, forse dopodomani, forse mai più, forse. ma non adesso, adesso voglio solo il respiro del vento, l’eco di passi lontani, di foglie cadenti.
perché quella scintilla, quel soffio, effimero che sia, se esiste, è mio. mio e mio soltanto e non lo condividerò con nessuno che non voglia guardare dritto negl’occhi.
perché non ho bisogno di credere che qualcuno mi legga per sostenere le mie affermazione, per confermare le mie certezze.
perché tanta è la noia che nel buio accogliente di questa pagina, non lascerò che il mio più sincero silenzio. né eco né soffi né rintocchi: il nulla. perché è tutto ciò che adesso mi va. tutto ciò che voglio. inesorabile eco, rintocco perpetuo. il vuoto.
- ciao, dovrei cambiare dei regali.
- prego, dimmi.
- sì, vorrei cambiare queste, queste e queste...
- ah, ma io lo chi sei tu, sei il cognato di quella ragazza bionda...
- ecco, si vede che ne vendete tante.
- ma perché non piacciono? dai sì usano.
- immagino... no, è che sono grandi, io non ho questo gran culone.
- ma forse le preferivi con un’altra fantasia...
- no, no, proprio cambiamo genere, grazie.
- ma sei sicuro? ci sono in beige, blu scuro...
- NO, GRAZIE, NON LE VOGLIO COSI’!
in un mondo perfetto starei ancora con la mia fidanzatina dell'asilo.
[...] per esempio, leggevo sul blog di Luttazzi un aforisma che mi ha fatto morire dal ridere: in un mondo perfetto lo sperma saprebbe di nutella.
hmmm...
...non è fantastica?
No, non mi piace.
Perché?
In un mondo perfetto, SOLO IL MIO SPERMA saprebbe di nutella!
Hmm... in un mondo perfetto tu non esisteresti.
[...] ho troppa stima dell'intelligenza degli italiani, per pensare che ci siano in giro così tanti coglioni che possano votare facendo il proprio disinteresse.
Silvio Berlusconi - Presidente del consiglio dei Ministri
sms sporadici, per lo più divertenti, graditi. personalmente li reputo gesti d’affetto.
sabato scorso mi ha ricordato che non l’avrei mai più rivista, domenica che mi ha scordato, martedì che non le mancavo più, giovedì che il mio blog è morto, venerdì forse aveva impegni ma questa domenica ha pensato bene di sottolineare che non prova più niente per me e che la ragazza con cui mi ha visto indossava delle scarpe orrende. ha reiterato sul regresso delle mie frequentazioni femminili e ovviamente sul suo distacco sentimentale nei miei confronti.
menomale che non mi pensa più.
menomale. pensa se non mi avesse scordato!?
Finita la conversazione, lui continuò a guardare la televisione. Col passare del tempo, gli diventava sempre più difficile spegnere l’apparecchio. Sapeva che tra l’istante in cui avesse spento e il momento in cui si sarebbe addormentato sarebbe calata un’immensa depressione. Era per questo che era restio a spegnere. Avrebbe dovuto riprendere il filo dei propri pensieri... Ci sarebbe stato un vuoto da riempire.
Don De Lillo, “Giocatori”
Oggi mi ha scritto una persona.
Cioè, veramente è da un paio di giorni che mi scrive. Oggi le ho risposto.
Non la sentivo da 2 anni. Non la leggevo da 4. Non la pensavo da tanto.
Ma io mi chiedo, ma che per caso in fronte c’ho scritto “giocondo”?
Mi viene il dubbio che la gente pensi che io abbia un tatuaggio sulle chiappe, qualcosa tipo “rocco was here” o “I’m waiting only you”.
Con tutto il mio affetto incondizionato e sincero, non sono interessato.
Buone cose.
- Gatto, io preferisco venire con la mia macchina.
- Sicuro?
- Sicurissimo!
Jacques LeFevrier, un francese, non lasciò nulla al caso, quando decise di suicidarsi. Sali' su di una collina, legò il capo di una fune al suo collo e l'altro capo ad un masso (per impiccarsi). Bevve del veleno e prima di saltare dalla collina si diede fuoco e cercò di spararsi. Il proiettile pero' manco' il bersaglio e trancio' la fune che lo legava al masso. A questo punto, l'aspirante suicida cadde nel lago sottostante. L'improvvisa immersione spense le fiamme e gli fece vomitare il veleno, fu tirato fuori dall'acqua da un pescatore e portato in ospedale... dove mori' di ipotermia.
Oltre, oltre non c’è arrivato nessuno. Non sopravvivono.
Per quanto arduo non sia, è dolorosamente noto il fallimento di intere legioni.
Non dovrebbe essere difficile, non dovrebbe essere complicato, faticoso, duro, stancante.
Eppure io sto da questa altra parte, dove non arriva nessuno, se non per fare baccano o confusione.
Sì, ogni tanto qualcuno passa, ma non sopravvive granché.
il vento così forte che la macchina beccheggia.
fra i palazzi di fronte le nuvole scorrono vicinissime; frastagliate, nere.
il parabrezza si riempie di tante, tantissime goccioline; inesorabilmente. inizia persino una canzone che ci sta. ci sta benissimo, ci sta così bene che resti lì imbambolato a fissare le nuvole che si rincorrono dietro il parabrezza ricoperto di pioggia e vorresti che non finisse mai. ti scopri così assorto, così smarrito dietro quel millimetro di cielo che credi di essere lì davvero.
e non può strafottertene di meno di tornare, vuoi restare lì, fra il vento, la pioggia e la tempesta, per sempre.
lontano, lontano da tutto e da tutti, lì dove nessuno può dirti nulla, dove non possono arrivare a scocciarti, dove pare che neppure ti pesa stare solo, anzi, non si potrebbe stare meglio. solo, senza voci intorno, senza fastidi, senza sciocchezze, senza futilità; immerso, annegato nei tuoi pensieri. circondato solo da te stesso, acqua, nuvole e vento.
l’attimo perfetto, da godere, da sognare.
la perfezione colta di sorpresa nella sua semplicità.
un soffio, effimero gustato, sviscerato in tutta la sua pienezza. che ti travolge, ti rapisce, ti ruba alla realtà.
è stupendo, pensi; ma si apre la portiera.
”scusa ho fatto tardi, andiamo?”
Il coraggio. Probabilmente, quando vi fu l’ipotetica ideazione della definizione di “coraggio”, fu subito chiaro il subordinamento all’etimo “paura”. Ovviamente sono solo speculazioni le mie, non ho manco la presunzione di chiamarla ironia, però fa riflettere come nell’eccezione del termine, la paura è strettamente ed intimamente legata all’antitesi del coraggio stesso. Non che io mi reputi un coraggioso, tantomeno un codardo, ma credo che chiunque, almeno un paio di volte nella vita, abbia dovuto analizzare e soppesare il valore sostanziale delle due definizioni e cercare una locazione personale all’interno dei due insiemi.
Credo che talvolta, credo che spesso, bisognerebbe analizzare il perché delle cose, le limitazioni che ci imponiamo e le motivazioni che adduciamo ad un comportamento o piuttosto che ad un altro, alla luce della definizione di “paura”.
Perché cazzo non arrivo fin lì? Perché non faccio quella cosa e mi levo il pensiero una volta per tutte? Perché no? Perché questo e non quello, perché!?
Ok, sarebbe riduttivo quanto inverosimile racchiudere il significato di ogni limitazione dietro il termine “paura”, vi sono tante e tali variabili in ogni situazione che spesso è persino difficile ricollocare una rinuncia o un sacrificio dietro ad una motivazione netta e lineare.
Ma allora dov’è annidata sta cazzo di paura? La paura è fra le righe dei perché, dei per come e dei non so se.
Beh, ma allora di che cazzo stiamo parlando?
Di “coraggio”. Perché talvolta coraggio non significa essenzialmente essere privi di paura, anzi; può significare acquisire la capacità lucida e cosciente di analizzare i propri limiti, anatomizzarli entomologicamente e adoperarsi per affrontarli in un clima di controllata razionalità.
Bisognerebbe solo ricordarsi che la paura è un istinto che nasce dall’esigenza coerente e inconscia di tutelarsi da potenziali pericoli e da minacce tangibili. Ma ciò non deve costituire un limite. Se non si affrontano le proprie paure si rischia di affogare nella stasi, e nella stasi non vi è ovviamente nessuna speranza d’evoluzione, positiva che sia. L’istinto di conservazione della specie quindi dev’essere subordinato sì al riconoscimento del pericolo, della minaccia, al timore dell’incognito incontrollabile, ma solo nella ragionevole direzione che porta all’individuazione delle cause della paura e della sconfitta delle stesse.
Ecco, ora che ho trascritto questa sega mentale mi sento realizzato. Alla fine basta avere le palle girate per aver voglia di scrivere sul proprio blog abbandonato, no?
Peccato che ci siano ancora due o tre discorsi che non ho ancora avuto il coraggio di affrontare con un paio di persone. E per quanto trovi valide e razionalissime scuse per procrastinare ogni cosa, non posso esimermi dal rinfacciarmi che la mia è solo paura delle conseguenze. E di che poi? Alla fine, io sono sempre nel giusto. Sempre. E magari è proprio di quello che ho paura. O no?
Vaffanculo va, buonanotte.
Di Michele Serra
Più o meno ogni giorno, da mesi, gli esperti ci spiegano che ci si può ammalare di aviaria solo attraverso il contatto diretto con un uccello migratore ammalato. Sono stati individuati cinque modi principali per contrarre il virus:
1. Leccare un cigno morto;
2. Andare appositamente in Asia e voltolarsi nudi nella cacca di pollo per almeno un'ora;
3. Inghiottire al volo un tordo crudo;
4. Pulire con la lingua un cornicione imbrattato dai piccioni;
5. Limonare con un barbagianni.
In Asia il virus è endemico tra gli uccelli di ogni tipo da una diecina d'anni, ma sono morte solo poche decine di persone, in condizioni igieniche pessime e tutte a causa di uno dei comportamenti sopra descritti.
Statisticamente, è molto più facile morire per un incidente domestico che per l'aviaria: ciononostante la gente crede che una casa senza crocchette di pollo e con la canna fumaria intoppata sia un luogo protetto. E che tenere in giardino due rottweiler nevropatici sia molto più sicuro che avere una gallina.
È in questo clima che in Italia dilaga la psicosi del pollo assassino. Milioni di consumatori sono convinti che i petti di pollo, il brodo di cappone e le uova sode uccidano all'istante non solo chi li mangia, ma anche chi li nomina. Questa pollofobia non ha alcun interesse per i virologi, ma appassiona gli studiosi di psicologia di massa.
La domanda che è alla base di questa disciplina venne formulata, alla fine dell'Ottocento, dal medico tedesco Otto Trauber, nel suo famoso saggio 'Ma la gente, è cretina?'. Trauber aveva studiato a lungo la credenza popolare secondo la quale, se una donna con le mestruazioni tocca una pianta, la fa appassire. Fece un esperimento: chiese a cento donne mestruate di toccare un mazzo di fiori. Il mazzo, ovviamente, non appassì, ma la centesima donna, un'obesa di Düsseldorf, inciampò avvicinandosi al vaso e schiacciò i fiori. Al dottor Trauber apparve chiaro che l'esperimento aveva dimostrato empiricamente ciò che anche la logica suggerisce: e cioè che non esiste rapporto tra mestruazioni e stato di salute della flora. Ma le protagoniste dell'esperimento non furono di questo parere: vedendo i fiori schiacciati, si considerarono colpevoli collettivamente del triste epilogo, piansero a lungo e picchiarono duramente il dottor Trauber perché le aveva indotte a rovinare dei fiori così belli.
Trauber elaborò il suo postulato scientifico più celebre: 'La gente crede solo a quello in cui vuole credere', che è il titolo del suo secondo saggio. Il terzo, scritto poco prima di morire, era un malinconico testamento scientifico: 'Questi qui non la capiscono neanche se gliela ficchi in testa a martellate', accolto severamente dalla critica del tempo che giudicava l'opera di Trauber antipopolare e contraria allo spirito positivista dell'epoca. Al di là delle controverse teorie di Trauber, non c'è dubbio che diversi accadimenti, dalla sua morte ai giorni nostri, avvalorano almeno una parte delle sue conclusioni. Comportamenti e convinzioni privi di qualunque supporto razionale (come la paura di contrarre l'aviaria mangiando pollo) hanno spesso larghissima diffusione. Dall'idea che esista davvero l'impero sommerso di Atlantide, con i tritoni, le sirene e tutto il resto, all'idea, ancora più pazzesca, che esista la Padania. Dagli avvistamenti degli Ufo soprattutto sui cieli che sovrastano le birrerie e i pub, al miracolo economico previsto dal governo italiano. Dalla convinzione che le piramidi siano state erette dagli alieni, a quella che la mafia riuscirà finalmente a costruire il ponte sullo Stretto.
"La gente", scriveva Trauber nel suo diario, "crede nelle cose più assurde, e lo scienziato vedrà sempre le sue confutazioni razionali infrangersi contro il muro della credulità. Per questo lo scienziato è triste, e la gente è contenta". Fa impressione pensare che Trauber scrisse queste righe senza sapere che, dopo la sua morte, si sarebbero affermate la gemmoterapia e Berlusconi.
il padrone di casa si dissocia dall'ultima asserzione reputandola arbitraria, faziosa e fuori luogo; sopratutto in periodo pre elettorale ed in pieno clima di par condicio.
cazzo.
il progetto è fallito.
forse si è solo consumato. o magari è questo il normale decorso.
mi annoia incredibilmente 'sto blog.
non ho più voglia di scrivere, non ho nessuna voglia di farmela venire e soprattutto non ho nulla di interessante da raccontare, e anche se l’avessi, mi annoierei a trovare le parole giuste e oltretutto troverei ridicolo doverlo fare.
ognittanto la mattina, sì ognittanto capita. mi sveglio con qualche idea che sembra disponibile alla trascrizione, ognittanto capita, ma non è nulla di chè. Ogni idea, ogni pensiero, ogni minima aspirazione svanisce prima di colazione.
nel bisogno d’essere l’implicito istinto al sembrare svanisce, nella noia, persino lo stimolo ad agire, se ripetitivo, diviene noioso.
oh che palle.
il blog è morto e neppure io mi sento granché bene.
Libri rilegati in pelle umana: il discorso etico riaffiora
Probabilmente ne esistono molti di più di quanto si supponga. Stiamo parlando di libri, ma con una caratteristica decisamente non comune: la loro rilegatura è infatti realizzata con pelle umana. La polemica è scoppiata negli ultimi giorni in seguito alla denuncia effettuata dall’agenzia Associated Press riguardo al ritrovamento nella Brown University di Providence, nello stato di Rhode Island, di un volume d’anatomia scritto nel 1568 dal chirurgo belga Andreas Vesalius, rigorosamente in pelle d’uomo. Sempre la stessa biblioteca ospita ben due copie della novella morale medievale The Dance of Death, la cui veste esterna è anch’essa realizzata in “verissima pelle”. In particolare in quest’ultimo testo è presente la nota di un rilegatore londinese che nel 1893 informa il suo committente di non avere a disposizione sufficiente “materia prima” per la rilegatura e suggerisce di ricorrere a una giuntura in pelle d’animale.
Sempre secondo l’Associated Press altre prestigiose biblioteche americane conservano esemplari di così “rara e pregevole fattura”: quella di Harvard possiede un manuale per avvocati spagnoli del 1605 acquistato da un antiquario anni prima per poche manciate di dollari. A Philadelphia, il College of Physiacians vanta tra le sue collezioni le opere del dottor John Stockton, passato alla storia della città come colui che diagnosticò il primo caso di trichinosi sul luogo. Per onorare un suo paziente, oramai deceduto, il gentil dottore rilegò con la sua pelle i tre volumi dedicati alle proprie scoperte. Tra i “manufatti umani” della Public Library di Cleveland spicca invece un corano interamente rilegato con la pelle del suo proprietario, un leader tribale arabo. Ovviamente la portata della notizia ha determinato numerose polemiche riguardo l’eticità. La barbara usanza non era poi così insolita tra il XVI e il XIX secolo sostengono alcuni storici. Durante questo periodo infatti le principali biblioteche erano nelle mani di facoltosi collezionisti che potevano permettersi questo tipo di eccentricità. La pratica era diffusa non solo tra ricchi bibliofili, ma anche tra i medici: i primi venivano in possesso dei cadaveri di persone povere o condannati a morte, i secondi potevano acquistarli direttamente dalle loro scuole di medicina.
Secondo alcuni, come Laura Hartman della National Library of Medicine del Maryland, “in molti casi i medici volevano onorare i loro pazienti con questa prassi”, dunque i libri di medicina costituivano un omaggio ai cadaveri utilizzati nelle scuole. Altri come Paul Wolpe, docente di bioetica all’Università della Pennsylvania, cercano di storicizzare la questione affermando che “la storia dà una certa distanza da questi artefatti. Questi non sono libri rilegati da nazisti. Se così fosse il giudizio sarebbe ben differente”. Comunque sia, questi libri sono accessibili solo agli accademici, il pubblico ne è escluso e varrebbe quantomeno la pena chiedersi le motivazioni.
tratto da www.sapere.it -
a firma di Ylenia Grattoni
Anyone can be heroic from time to time, but a gentleman is someting you have to be all the time.
Sarà, ma non è che c’hai fatto una gran bella figura.
Nel tuo ingenuo disinteresse risulti tanto infantile, superficiale e distratta.
Sai cos’è? Mi ha colpito la totale mancanza di stile, per quello ci sono rimasto male, è vero.
La cosa mi ha offeso, ma per il resto -ti giuro- non mi importa nulla, e di questo ne sono entusiasta.
L'altro giono una mi fa "Sono come una foglia al vento che sta per staccarsi e perdersi in balia del vendo della perdizione...". Le ho risposto qualcosa del tipo "Oggi ti vedo allegra e rilassata."; e lei "sto male"; "prenditi un buscopan che ti passa" le ho risposto. "Non é buscofen?" ha replicato. Le ho detto che il fatto di conoscere il nome sarebbe stato risolutivo.
Io non prendo buscoquellolí, e non mi sento granché bene.
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